Sorriso disarmante

Cristo sorridente
Non è anacronismo; non abbiamo sbagliato tempo liturgico. Solo uno spunto per riflettere, per evitare che le parole belle sul Natale sbiadiscano su volti pallidi di insoddisfazione.
(Le Christ souriant de Lérins)
La via sbagliata del risentimento
di Claudio Magris
in “Corriere della Sera” del 20 dicembre 2013
In un libro di memorie, Isaac Bashevis Singer ricorda un personaggio della Varsavia ebraica della
sua giovinezza, Todros l’orologiaio, uomo che come tutti o quasi tutti penava per vivere e per
sopravvivere, ma sul cui volto tuttavia c’era sempre «un’espressione di appagamento».
È questo appagamento, profondamente radicato nella civiltà ebraica, a fare di lui, con tutte le sue
pene e difficoltà e nella sua inconsapevole capacità di essere sensualmente lieto, un uomo
invidiabile e superiore, non meno santo, nella sua lieta armonia col fluire della vita, dei maestri
della Legge.
Raramente capita di vedere sul volto delle persone una simile espressione di appagamento. Troppe
facce intorno a noi — a cominciare dalla nostra — hanno invece spesso un’aria scontenta e
risentita, quella di chi ritiene di non aver ricevuto ciò che gli o le spetta e naturalmente per colpa
degli altri, della vita. Facce di chi si sente non gioiosamente in debito con la vita, bensì acremente in
credito. Pieghe amare su bocche male o poco baciate e sempre per colpa di ingrate o incomprensive
labbra altrui; sguardi acri di chi non si sente compreso nella ricchezza della propria anima e non si
pone nemmeno il problema della sua eventuale incapacità di esprimerla o dell’eventuale aridità
della propria stessa anima; mogli e mariti la cui reciproca incompatibilità è sempre colpa dell’altro,
della sua e non della propria grettezza. Letterati cui il successo di colleghi guasta l’umore anche se
dà l’agro conforto di sentirsi vittima di un’ingiustizia del mondo ottuso e volgare.
Quasi tutti mettono, mettiamo in conto al mondo le nostre insoddisfazioni e frustrazioni, il grigiore
della nostra vita. Il risentimento, come hanno visto Nietzsche e altri sulla sua scia, può essere pure
una chiave per interpretare molti fenomeni e movimenti storici, l’atteggiamento vendicativo e
bilioso di religioni, filosofie e ideologie che imputano alla malignità altrui il proprio fallimento.
L’appagamento stampato sul viso di quell’orologiaio non è la stupidità del cuorcontento. Il
risentimento è ben diverso dal grido di dolore, di protesta, di rivolta contro le reali oppressioni e
ingiustizie che si subiscono e che esigono, in un animo non servile né drogato da ideologie servili,
la resistenza, il rifiuto anche violento, la rivoluzione. Il volto del rivoluzionario può — talora deve
— essere duro, anche spietato e pieno di furore, ma è il volto di una vera, grande e giusta ira contro
la violenza subìta, ira che nobilita il cuore e l’espressione, come l’ira del Dio biblico contro i potenti
malvagi. Quest’ira non ha nulla a che vedere con il meschino livore inciso su certe facce di petulanti
contestatori di professione, un mix di supponenza e acidità di stomaco, più frequente nei salotti
intellettuali radicalchic che nelle fabbriche in sciopero. Ma sarebbe crudele toglierci, incapaci come
siamo di sentirci appagati e di sorridere come quell’orologiaio, la soddisfazione di crederci
incompresi.

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